Articolo pubblicato sul numero monografico di Babele dedicato al Covid-19
«Arresti domiciliari» è il modo con cui spesso si indica lo stato di restrizione imposto dall’attuale pandemia. È un modo di dire spiritoso, ma da oltre un secolo (dal 1905) Freud ha mostrato che i motti di spirito pronunciano cose risibili per enunciare verità molto serie. Basterebbe rileggere Il processo di Kafka per intravedere le verità serie criptate nella dizione «arresti domiciliari»; per ricordare che la parola arresto è sottilmente equivoca e nella sua ambiguità possiede significati esistenziali dalle implicazioni sinistre, che parlano di stasi, ingorgo, ristagno, blocco, fallimento di uno sviluppo. Rileggendo Il processo di Kafka, si realizzerebbe che non è nuova la storia di chi si sveglia un mattino e scopre di essere in stato di arresto. In queste settimane è accaduto a milioni di persone disseminate lungo l’intera longitudine del pianeta; come il protagonista Joseph K. anch’esse hanno ricevuto un’inattesa notifica di arresto senza capire di che arresto si tratta.
Ci sono sempre figure inaccessibili (nei palazzi del potere come nei recessi della psiche), che nel cuore della notte, mentre le coscienze ingenue sono assopite, prendono decisioni assurde, seguendo logiche incomprensibili. Ci sono sempre folle di Joseph K. che si ridestano in albe di consapevolezza già crepuscolare, si aggrappano a una logica diurna mai passata al vaglio critico e riprendono vite intensamente volute e mai deliberatamente scelte.
Come la folgore di Zeus i decreti di arresto si abbattono sulle loro attività programmate e sulle loro giornate già pianificate, su progetti in fase di realizzazione e sviluppi successivi già in fase di ideazione, su viaggi e impegni, appuntamenti e scadenze, impegni e doveri, perfino su pause e congedi, su ferie preordinate e sospensioni faticosamente strappate. Niente come l’arresto ha la capacità di mettere a nudo la massiccia rimozione dell’imprevedibilità, della precarietà, dell’insicurezza su cui è retta la soporosa serenità delle nostre coscienze ingenue. L’imprevisto stato di arresto collettivo urla con lo stridore della voce dissidente che «il re è nudo»: è nudo di certezze e protezioni, di conoscenze e di tecnologie, di continuità e forse anche di futuro.
«Niente come l’arresto ha la capacità di mettere a nudo la massiccia rimozione dell’imprevedibilità, della precarietà, dell’insicurezza su cui è retta la soporosa serenità delle nostre coscienze ingenue»
L’uomo naturale, quello accuratamente rimosso insieme al sentimento di impermanenza, sapeva che gli è dato in sorte il compito di fare progetti, ma ai numi è dato il potere di vanificarli; che il diritto è della cultura, ma della natura è il despotismo; che l’esistenza va programmata, ma è nelle mani dell’imponderabile. L’uomo naturale ha sempre saputo che esiste un abisso ontologico tra quel pulviscolo di Vita che siamo noi e il respiro cosmico della Vita che spira nell’universo. Se non rimuove la consapevolezza di sé, l’uomo sa ancora che innalzarsi al di sopra dei propri fini (che sono limiti oltre che scopi) è hybris dell’Io.
È così scontata da passare inosservata (e dunque è inconscia) l’hybris dell’individuo qualunque, che violenta i limiti dello spazio per dare un appuntamento domani a New York e due giorni dopo a Hong Kong, per acquistare a Roma titoli sulla borsa di Tokyo, per vendere granaglie di Ravenna sul mercato di Chicago. È hybris di una coscienza ingenua quella che violenta le leggi del tempo, impegnandosi in un mutuo di trentacinque anni, acquistando un bilocale in montagna per trascorrevi gli anni della pensione o in città per lasciare ai figli una rendita sicura. È hybris di un Io vacuo impersonare stili di tendenza, costruire curricula roboanti e profili facebook impressionanti. È curiosa presunzione di un uomo che non sa essere signore di sé ergersi a signore del tempo, dello spazio, degli altri. È hybris collettiva ritenere che l’economia debba seguire il trend di una crescita implacabile, che i funambolici artifizi della turbofinanza possano moltiplicare i redditi e il benessere, che i titoli di studio debbano aumentare pur perdendo di valore, che la visibilità vada realizzata anche quando non scaturisce dal pregio, che il prestigio sociale debba prevalere sullo spessore personale. Disegni inflazionistici vengono coltivati individualmente e collettivamente, in ogni campo e a ogni livello, perché l’inflazione procede in parallelo con l’hybris. Seguendo la logica inflessibile delle cose irrazionali la pandemia da Covid-19 nel mondo colpisce le civiltà avanzate più che quelle arretrate, in Italia funesta le regioni del Nord più di quelle del Sud, tra le città alligna nella cosmopolita Milano più che nella periferica Nuoro. Seguendo direttrici imperscrutabili, pare abbattersi con maggiore virulenza là dove l’hybris maggiormente dilaga nell’attuale psiche collettiva. Né la psicologia né la sociologia hanno saputo tracciare un profilo esauriente dell’hybris collettiva, ma di meglio riesce a fare la cronaca della pandemia, quando ritrae l’insofferenza di molti per le restrizioni necessarie, la sfida di taluni al rischio di contagio, la speranza di tutti riposta nelle capacità della scienza, la previsione di vaccini in tempi irrealizzabili, l’insolita distribuzione di denaro-libido, l’urgenza di ritornare alla produzione, l’implacabile approfittare della situazione nelle forme turpi dei truffatori e in quelle eleganti di tecnici e presunti tali. Risponde allo stile imperante dell’hybris buona parte delle azioni e delle reazioni connesse al forzato stato di arresto. E pare di sentire Joseph K. porre a tutti la domanda che non seppe porre a se stesso: «Quale arresto?». E pare di sentirlo ricordare sommessamente la sua infausta fine, per non aver capito quale arresto si imponeva e quale processo (!) era in gioco.